«Purtroppo il modo di scrivere la storia
        può essere impiegato come fattore pedagogico
        anche in senso antiumanitario e nazionalista...
        Definisce i confini rispetto al mondo circostante,
        indica chi debba essere amato e chi odiato,
        chi lodato e chi disprezzato...
        La coscienza storica, 
        particolarmente quella nazionale, 
        è una forza possente: una volta fuorviata 
        è correggibile solo assai difficilmente»
        
      
 Claus Gatterer Italiani maledetti, maledetti austriaci (1)
Chi sono i soldati trentini che  combatterono per l’esercito austro ungarico durante la prima guerra mondiale?
        Sono migliaia di uomini partiti  all’imbrunire di un giorno dell’estate 1914, che raggiunsero terre e città di  cui nemmeno conoscevano il nome. Che dopo l’ebbrezza dei giorni della partenza -  quei canti sui treni diretti verso oriente, “mesti come gli uccelli sulla neve”,  pieni di inquietudine e malinconia - scoprirono il timore per un futuro  incerto. Che provarono l’esperienza di guerra, terribile, sui campi di  battaglia e che morirono nelle carneficine delle pianure polacche, in Galizia e  Bucovina. 
        Molti di loro furono i  dispersi; tanti lasciarono lontano, nelle nostre vallate trentine, persone ad  attenderli invano. Una moglie, una moltitudine di piccole bocche da sfamare; un  vuoto di affetti che il tempo mai poté consolare. 
        Questo è l’orrore della guerra;  a noi resta la necessità della memoria. In questi ultimi vent’anni sono fiorite  svariate ricerche e pubblicazioni sul ricordo dei trentini soldati nell’esercito  austro ungarico durante la prima guerra mondiale. Un fiorire di studi tardivo  che ha tentato - e ancora oggi tenta - di colmare una situazione tutt’altro che  favorevole alla trattazione del tema. Le ragioni di questo stallo sono  molteplici; in alcuni casi di facile intuizione, se si pensa alle necessità di  italianizzazione forzata delle “terre redente” operata dal regime fascista. La  “memoria dei vinti”, come sempre accade, dovette passare sotto le Forche  Caudine della denigrazione, dell’umiliazione, quindi dell’oblio.
      	Questo atteggiamento segnò in  modo indelebile la memoria collettiva. L’esperienza degli oltre 60.000 trentini  che avevano combattuto per l’Impero non era solo un’onta da cancellare, ma  piuttosto una vera e propria responsabilità di cui molti trentini - i caduti ma  anche i sopravissuti al conflitto - avrebbero dovuto portare il peso. Persino  su un luogo sacro, la tomba, quello che viene avvertito come lo spazio dove  simbolicamente avviene l’unione tra i due mondi, quello di chi resta e quello  di chi se n’è andato, avvenne lo sfregio, con le frasi imposte e offensive che  le amministrazioni delle terre “redente” furono costrette ad adottare o vollero  di propria iniziativa. Una forma esplicita di rifiuto verso questi caduti,  reputati responsabili di un tragico errore, destinati a restare perennemente  confinati su una soglia indefinita tra la pietà e il disprezzo, nel purgatorio  destinato ai perdenti, “morti per la patria nefanda ed oscura”.
      Il fascismo impose in senso autoritario non solo i proprio metodi e le  proprie istituzioni ma anche la propria visione storica degli eventi, con un  disinvolto uso storico del passato. Il mito dell’irredentismo fu costruito in  netta contrapposizione di altre storie che andavano invece dimenticate. 
 «Eroi,  sacrifici, sangue, memoria sono tutti elementi essenziali per la creazione di  forti tradizioni». (2)   
      Ancora oggi si ha la sensazione  che l’intera vicenda sia stata affidata alla damnatio memoriae, quasi si  trattasse di eventi mai accaduti; nel periodo successivo alla fine del secondo  conflitto mondiale non è infatti mutato, se non parzialmente, quanto derivato  dall’uso pubblico della storia operato in precedenza dal regime. Le tensioni  nazionaliste anziché allentarsi riuscirono, pur in un contesto generale diverso  rispetto a quello in essere tra le due guerre, a ingenerare nell’opinione  pubblica una vulgata storica che in gran parte ricalcava il mito già citato  della nazione, dell’irredentismo e degli eroi, considerando di fatto del tutto  inopportuna la necessità di confrontarsi con l’insieme delle vicende storiche  che interessarono i trentini - soldati e civili - durante l’intervallo bellico  1914-1918.
      I 60.000 trentini che combatterono per l’Austria Ungheria non furono  “costretti" a combattere, 
 come ancora oggi qualcuno scrive (3), ma nemmeno degli “eroi” come  si vorrebbe far intendere altrove. Furono servitori dello Stato, l’impero  austro ungarico, di cui erano e si sentivano parte da numerose generazioni.  Assolsero il loro dovere come ogni soldato chiamato alle armi, benché la  vocazione popolare non fosse certamente quella del conflitto e dell’esasperazione  ma piuttosto il desiderio di una vita quieta e pacifica. Come peraltro  testimoniano in modo decisivo molte corrispondenze di guerra dei soldati dal  fronte galiziano. 
      A onor del vero va anche detto  che per molti trentini il combattimento nelle fila austro ungariche fu vissuto  con difficoltà, non solo per il semplice fatto di essere in guerra, ma per la  diffidenza con cui gli ufficiali austriaci e tedeschi trattavano gli “italiani  d’Austria”; un atteggiamento non affatto diverso da quello con cui - come  annotano il Battisti e tanti altri irredentisti - gli ufficiali italiani  trattavano i fuoriusciti dal Trentino. 
      Il deputato alla Dieta tirolese, Johann Nepomuk Di Pauli, durante la  guerra fece delle interpellanze in merito alla discriminazione ed abusi  commessi ai danni di alcuni soldati trentini nell’esercito imperiale. Tanto che  il Comando Supremo d’Armata rivolse un messaggio ai corpi di truppa aventi al  loro interno soldati “italiani”: 
«... Considerando le condizioni estremamente gravose nelle quali attualmente si deve combattere, una buona parola riesce a trascinare al massimo grado di abnegazione ed entusiasmo, mentre un modo di fare brusco può invece paralizzare l’ottimismo, il buonumore, la fiducia in sé stessi; ma in modo molto particolare un trattamento diffidente e degradante, provocato non da mancanze personali, ma dalla nazionalità dell’uomo, può produrre indifferenza, scontentezza, e anzi repulsione».
Il soldato Emilio Fusari, un esempio tra i tanti,  testimonia delle violenze subite dagli ufficiali, spesso senza motivo, con l’uso  di epiteti del tipo “porcho, sporcho d’un taliano”. 
 «In quel momento - scrive  il Fusari - tenivo chiuso un ramarico che mi sembrava il cuore mi si spezase,  non potendo vedicarmi di quel malvagio d’uficiale. Pasienza e soportiamo!». (4)
          Concluso il conflitto, per  molti dei soldati sopravissuti, il rientro in Trentino comportò una prigionia  amara; un bando emesso il 16 novembre 1918 dalle nuove autorità italiane di  occupazione spinse numerosi ex combattenti dell’esercito austriaco a  presentarsi presso le autorità militari. 
Questi reduci furono portati fino ad Isernia e trattati in condizioni disumane, tanto da far loro rimpiangere quanto provato in battaglia o, in alcuni, la prigionia dei Russi. Era la prima, crudele, rappresaglia compiuta dagli italiani.  
        E poi ancora, durante la dittatura, le epurazioni, 
 gli elenchi con migliaia di nomi di “austriacanti” trentini.  (6) I reduci austro ungarici vennero esclusi de jure dal Governo italiano, in quanto ex-nemici, dai benefici assistenziali organizzati per gli ex combattenti, 
 per i mutilati e per le altre categorie di vittime della guerra. (7)
        Fritz Weber ha esposto bene il senso di disperazione dei reduci:
Vi è poi l’amarezza di chi aveva combattuto sul fronte meridionale - fu il caso anche di numerosi sudtirolesi e anche di diversi trentini - prendendo atto di una terribile sconfitta che tale non era stata sul campo:
«L’Italia non ci ha mai vinto. In tre anni e mezzo di lotta, non riuscirono a conquistare un solo palmo di terra tirolese, benché già dall’inizio noi fossimo inferiori per numero... Con ben giustificato orgoglio noi potemmo sempre affermare: a parità di forze è facile opera per noi sconfiggere codesto nemico. Eppure tutto finì nella rovina e nella disfatta»,
 scrive Eduard Reuth-Nicolussi.  (9)
Dr. Lorenzo Baratter
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      Storico e Direttore del Centro Documentazione Luserna
Nato a Rovereto (Trento) nel 1973, laureato in Storia presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, è Direttore del Centro Documentazione di Luserna. Ha curato numerose pubblicazioni e monografie di storia contemporanea regionale e nazionale. E’ membro del Comitato di indirizzo della Fondazione Museo Storico del Trentino.
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