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Storie


«La maledizione degli uomini è che dimenticano». Sono le parole di Mago Merlino, nel film “Excalibur” di John Boorman, e suonano come un’amara considerazione. Tante volte, assopiti sul nostro divano, guardiamo distrattamente la televisione facendo zapping, o leggiamo gli articoli sui giornali che parlano di quella grande tragedia della storia dell’uomo che è la Prima Guerra Mondiale. È quasi passato un secolo, ma è una ferita troppo grande per essere dimenticata. Tuttavia ciò che leggiamo, che ascoltiamo, che ci raccontano, a volte in un secondo momento, se la nostra testa non è ancora stata del tutto impigrita dalla società moderna... qualcosa insomma non ci convince. Ascoltiamo e ci viene in mente come un flash quello che sentivamo raccontare dal nonno, dal papà, da quel tale giù al bar... e ci viene un dubbio: ma non è andata proprio così come stanno dicendo in tv!
Cesare Battisti, Fabio Filzi, Trento Redenta, la festa imbandierata in piazza in via Dante all’ingresso delle truppe italiane giunte a liberarci... Eppure mio nonno raccontava che in camera da letto dei suoi genitori di fronte alla fotografia dei suoi nonni c’era il Kaiser, quell’uomo dalla barba bianca e il mezzo sorriso che mio nonno ha sempre chiamato Cecco Beppe, come fosse un suo conoscente. Mah, forse sono i miei avi che la pensavano “della banda sbagliata”. Però raccontando questa storia, nella memoria di un mio interlocutore trentino, viene ripescato da un angolo polveroso della sua testa l’identico ricordo. Ma allora non era fantasia, non era una “perversione” dei miei bisnonni. Tutto ciò era costume diffuso, sentito e soprattutto spontaneo nella nostra terra. Allora è vero che la foto del Cecco Beppe (quasi immancabile nelle case come il quadretto del Sacro Cuore te la cosìna) fu requisita dal governo fascista, nato dalle conseguenze della Grande Guerra. Allora il mio bisnonno Graziano davvero fu prigioniero dei Cosacchi, imprigionato nelle Filippine e imbarcato fino a raggiungere in nave Genova per essere rinchiuso dagli italiani nel campo di concentramento di Abbiategrasso. E c’era quindi un motivo nell’aver covato amarezza fino alla morte verso quelli che chiamava “invasori”, canticchiando fino all’ultimo giorno il “Serbi Dio l’austriaco regno”. Allora non era il solo. “Montanari ignoranti” - dicevano - “cosa vuoi che ne sappiano, sono solo dei vecchi retrogradi”. Che non capiscono che “i taliani, nostri fradei, loro ci hanno liberato”. Ma da cosa? Chi l’ha chiesto?

Storie come queste, se rimangono nella testa e nei cuori di ognuno di noi, moriranno con noi. È nostro dovere non far sì che la storia, come dice il proverbio, la scrivano i “vincitori”. La storia di Primiero non inizia nel 1918, la storia non sono solo i siori, l’élite di cui sono state tramandate le gesta, vere o romanzate che siano. Parafrasando De Gregori, “la Storia siamo noi, padri e figli”: il bacàn che ha dovuto abbandonare le sue bestie per difendere i confini, il boschiér che non ha mai potuto proseguire gli studi e quindi scrivere libri, che dopo una vita passata a crescere la sua famiglia, ha posato il manarìn per imbracciare il fucile e cadere sotto la neve di Galizia, per la sua terra e la sua gente. Le madri che hanno visto partire i figli e il so omm per non rivederli più.
In queste pagine vogliamo raccogliere le voci di chi non l’ha mai avuta. O per paura di sentirsi fuori dal coro, o perché non ne ha mai avuto la possibilità.
Inviateci i vostri ricordi e le vostre foto, è importante che non siano spazzate via dal vento dell’oblio.

Marco Depaoli

irecuperanti@libero.it
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