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Storie

L’altra faccia dell’Insurrezione

Quegli orribili Maoni
Hofer e i briganti tirolesi

da il Corriere delle Alpi del 28 gennaio 2009, pag. 32

copertina

È destino proprio che sui maoni, gli insorti tirolesi che nel 1809 si batterono contro le truppe franco-bavaresi, continui ad aleggiare una triste fama, almeno da Ampezzo in giù. Le incursioni che effettuarono tra l’aprile e il dicembre 1809 sul suolo italiano, ed in particolare la loro discesa a Belluno il 22 aprile, furono sempre descritte nelle nostre «memorie patrie» con tinte inquietanti, legate a un cumulo di efferatezze compiute a danno delle popolazioni inermi. Naturalmente la prospettiva è ben diversa ad Innsbruck e nell’Alto Adige, dove Hofer è considerato un grande patriota e dove sono già state organizzate gite in pullman alla scoperta dei luoghi legati alla sua epopea.
Perché dalle nostre parti fossero chiamati maoni non è facile rispondere. Alcuni sostengono che i cadorini col termine Maòi (poi divenuto maoni) intendevano i marebbani, dal momento che gli abitanti di Marebbe in dialetto marebbano venivano chiamati Maròi. Ma c’è pure chi sostiene che con maoni s’intendeva un branco d’uccelli raccogliticci, tanto che nel dialetto trentino con questa parola si indicavano vere e proprie bande armate.
Un altro appellativo molto usato dalle nostre parti era pure quello di cappelloni, proprio per il grande copricapo tipico del costume dei loro paesi, ma in definitiva il termine più usato nei loro confronti, papale papale e senza infingimenti di sorta, era quello di briganti tout court.
Fatto abbastanza singolare, se si pensa che essi si presentavano in genere in processione, portando stendardi con le immagini di Gesù accanto agli stemmi della Carinzia e dell’impero austriaco.
Molto più difficile dell’etimologia risulta d’altra arte il giudizio storico. Nel Tirolo e dintorni Andrea Hofer rappresenta un simbolo di dignità e cultura nazionale, come conferma la bella statua che gli è stata dedicata ad Innsbruck, ma anche per lui vale in definitiva ciò che è successo a Napoleone, il suo odiato nemico: una cosa è il generale in capo, le sue speranze, la sua stessa ideologia, un’altra i suoi esecutori, i suoi uomini più o meno fidati. Napoleone può essere discusso all’infinito, ma possiede una sua intima coerenza, intellettuale e morale, mentre altrettanto non si può dire di tanti suoi “bracci destri”, come Massena, Rusca, Delmas, che portarono sì il verbo rivoluzionario nelle nostre contrade, ma tanto brigarono e requisirono da far odiare alla nostra gente anche ciò che di positivo c’era nella lezione francese. Quanti profittatori, anche nostri vicini di casa, salirono sul carro di Hofer per meri interessi contingenti, se non addirittura per spirito di rapina?
Ritenere che in provincia di Belluno si guardasse ad Hofer con simpatia, preferendo l’alleanza con lui piuttosto che con il Principe Eugenio, è oltremodo avventato. Soprattutto i cadorini, gente semplice e per lo più illetterata, onesta e concreta, non amavano i francesi, ma si guardarono bene dal rispondere alla diana tirolese: soltanto una decina o poco più di giovani cadorini si arruolò nelle file tirolesi ed è lecito pensare che a spingerli sia stata soprattutto la promessa di un po’ di denaro.
La massa stette a guardare, ed ebbe ragione, perché le bande invadenti dei tirolesi seppero dimostrarsi ancora peggiori dei vari generali francesi che le combattevano. Così, dopo aver subito varie invasioni ed angherie, il Cadore visse il momento più drammatico il 4 settembre 1809, allorché dai monti circostanti Pieve calarono a semicerchio sui nostri paesi 3000 tirolesi assatanati, pronti a saccheggiare e prendere ostaggi, capaci persino di tagliare orecchie e dita alle donne non abbastanza accondiscendenti a cedere subito i propri anelli ed ornamenti. «Maoni, briganti, feccia d’ogni sorta, sozzi, brutti, deformi, assassini», sono solo alcune delle definizioni date a questa gente, che costringeva gli uomini a pagare per non vedere la casa bruciata, le donne ed i fanciulli a rifugiarsi addirittura negli antri dell’Antelao. Il sindaco di S. Vito fu costretto a macellare cinque paia di buoi per satollarli e l’oste Giobatta Menegus dovette mettere a disposizione tutto il suo vino per evitare altri guai. Penetrarono perfino a Cibiana e in Zoldo, spogliarono le chiese, rubarono l’olio sacro per farne ludibrio...
La situazione migliorò con la firma della pace di Vienna il 14 ottobre, ma nella memoria dei cadorini rimase a lungo quel tremendo 1809, sinonimo di paura e violenza subita. Che oggi si voglia rivalutare la figura di Hofer, soprattutto nell’Ampezzano, sull’onda di una precisa strategia politica contemporanea, è lecito e fa parte del gioco della storia. Ma ricordiamo che Giovanni Fabbiani non esitava a dire: «Chi vorrà ricercare l’origine dell’odio dei cadorini verso gli austriaci e giustificare l’unanime sollevazione del 1848 troverà che furono sì i lontanissimi ricordi del secolo XVI, ma specialmente i ricordi ben più recenti e truci delle angherie sofferte per merito degli austriaci e degli austrofili altoatesini o tirolesi del 1809».

Walter Musizza e Giovanni De Donà


«Meglio i francesi che i Maoni»

A 200 anni dai moti di Hofer il ricordo dell’invasione tirolese

da il Corriere delle Alpi del 25 marzo 2008, pag. 36

Si intitola “1809: l’insorgenza veneta” ed è l’ultima fatica di Ettore Beggiato, pubblicista e studioso di storia locale, che ha voluto ripercorrere la storia dei disagi e delle ribellioni che pervasero città e campagne del Veneto dalle “Pasque Veronesi” del 1797 fino ai giorni nostri. Insurrezioni che certo ebbero il loro apice nel 1848, ovvero nella Repubblica di Manin e Tommaseo, ma che esplosero un po’ a macchia di leopardo tra Adige e Tagliamento, durante gli anni dell’occupazione napoleonica.
Tra i numerosi episodi descritti ci sono quelli del 1809, avvenuti a Schio, ad Orgiano, nel Tirolo di Andreas Hofer, tutti moti contraddistinti da forte adesione popolare, incapaci peraltro di divenire rivoluzione per la latitanza di guide capaci e per la feroce repressione attuata dagli ufficiali napoleonici.
Ed in effetti bisogna riconoscere che la gente veneta seppe spesso dimostrarsi eroica in questa sua lotta contro la sopraffazione, lotta che, per molti motivi, rimase trascurata dalla storiografia ufficiale, anzitutto perché condotta quasi sempre nel ricordo (o miraggio) del Leone di S. Marco anche quando di fronte c’era il Regno d’Italia e non l’infame generale còrso.
Ma, considerato che quest’anno ricorre proprio il bicentenario dei moti del 1809 di Andreas Hofer, per i quali gli abitanti delle valli tirolesi nutrono grande simpatia e devozione, non vorremmo che si facesse una pericolosa generalizzazione, accomunando magari cadorini e tirolesi sotto un’identica insegna antinapoleonica.
Ricordiamo che tra Pelmo e Peralba furono ben pochi quelli che risposero alla diana di chi invitava ad unirsi alla rivolta tirolese per far fronte comune contro le debordanti e predatrici armate napoleoniche. Risulta così che solo quattordici giovani di S. Vito ed uno di Auronzo accettarono nel 1809 di unirsi ai rivoltosi ampezzani, ricevendone in cambio armi e denaro.
Ritenere quindi che quassù si guardasse ad Hofer con simpatia, preferendo l’alleanza con lui piuttosto che con il Principe Eugenio è avventato. I cadorini, gente semplice e per lo più illetterata, onesta e concreta, non potevano che - come si suol dire - magnis componere parva, ovvero leggere la grande storia attraverso le esperienze vissute sulla propria pelle, misurare gli ideali politici propagandati dal tricolore francese o dalla felix Austria con il metro di quanto visto e subito sotto casa.
Visione qualunquista, di uomini piccini, chiusi nel proprio guscio alpino intriso di pregiudizio e diffidenza verso ogni novità? Neanche per sogno: si trattava esclusivamente di naturale prudenza maturata sull’onda lunga della storia ed alimentata da tre secoli di dedizione alla Serenissima, a quel mai abbastanza lodato Cauta sedit, prompta surgit, che tante benemerenze seppe riverberare anche sulle pallide Dolomiti.
I cadorini ben sapevano che una cosa era Hofer, un’altra chi era pronto a salire sul suo carro, temporaneamente vincente, per fare solo i propri interessi. Ed ebbero ragione, perché le bande invadenti dei tirolesi seppero dimostrarsi ancora peggiori dei vari generali francesi che le combattevano. Così, dopo aver subito varie invasioni ed angherie, il Cadore visse il momento più drammatico il 4 settembre 1809, allorché dai monti circostanti Pieve calarono a semicerchio sui nostri paesi 3000 tirolesi assatanati, pronti a saccheggiare e prendere ostaggi, capaci persino di tagliare orecchie e dita alle donne non abbastanza accondiscendenti a cedere subito i propri anelli ed ornamenti. “Maoni, briganti, feccia d’ogni sorta, sozzi, brutti, deformi, assassini” sono solo alcune delle definizioni date a questa gente, che costringeva gli uomini a pagare per non vedere la casa bruciata, le donne ed i fanciulli a rifugiarsi addirittura negli antri dell’Antelao. Il Sindaco di S. Vito fu costretto a macellare cinque paia di buoi per satollarli e l’oste G.B. Menegus dovette mettere a disposizione tutto il suo vino per evitare altri guai. Penetrarono perfino a Cibiana e in Zoldo, spogliarono le chiese, rubarono l’Olio Sacro per farne ludibrio...
La situazione migliorò con la firma della pace di Vienna il 14 ottobre, ma nella memoria dei cadorini rimase a lungo quel tremendo 1809, sinonimo di paura e violenza subita. E non aveva torto il Fabbiani quando affermava: “Chi vorrà ricercare l’origine dell’odio dei cadorini verso gli austriaci e giustificare l’unanime sollevazione del 1848 troverà che (...) furono sì i lontanissimi ricordi del secolo XVI, ma specialmente i ricordi ben più recenti e truci delle angherie sofferte per merito degli austriaci e degli austrofili altoatesini o tirolesi del 1809.
Certo pretendere oggettività dagli storici è troppo. Che si dice del resto di Oberdan a Vienna e dintorni? E poi non dimentichiamo che l’imperatore Massimiliano (quello del 1508, di Rusecco per intenderci) vanta un bel monumento in piazza a Cormòns, a 100 km dalle nostre chiese “della difesa”, che ringraziano ancor oggi Dio di avercelo tenuto lontano.

Walter Musizza e Giovanni De Donà




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