Gli episodi più rilevanti e più famosi del vasto movimento di Insorgenze antifrancesi che caratterizzò l’Italia dal 1796 al 1814, con particolare virulenza nel triennio 1796-1799, furono la riconquista del regno di Napoli a opera dell’Armata della Santa Fede guidata dal cardinale Fabrizio Ruffo (talmente significativo da dare vita a vocaboli specifici come sanfedismo e sanfedista), le Pasque veronesi, l’epopea dei Viva Maria! in Toscana (ma bande di Viva Maria! vi furono anche in Liguria) e quella di Andreas Hofer nel Tirolo e nel Trentino.
In realtà durante gli anni dal 1796 al 1799 e in quelli successivi non vi fu regione d’Italia le cui popolazioni non insorsero contro gli invasori francesi, tanto da potersi senza dubbio sostenere che il fenomeno delle Insorgenze è stato il più vasto e più concorde movimento popolare della storia d’Italia.
Una stima assolutamente prudenziale fa ascendere ad almeno 280.000 gli insorgenti e a 70.000 i loro caduti (1). Lo storico deve procedere sempre con estrema cautela nel mettere a confronto epoche diverse. Eppure risulta subito evidente che una partecipazione altrettanto ampia e concorde su valori comuni non videro i due miti fondanti dello Stato unitario italiano, il Risorgimento, esaltato soprattutto dalla monarchia sabauda, che lo portò a compimento prestandogli la sua cauzione dinastica e moderata, e la resistenza partigiana, accaparrata dalla repubblica (e dalle sinistre), che, con una operazione spregiudicata e in larga misura scorretta, se ne è proclamata «figlia».
Del movimento risorgimentale, diviso inoltre in varie correnti, è da tutti riconosciuto il carattere minoritario, sia pure da alcuni considerato un pregio, da altri un limite, da altri ancora un fatto ovvio e comune a quasi tutte le vicende storiche. Ove il popolo si manifestò, fu contro il Risorgimento, per esempio con il brigantaggio legittimista nel regno delle Due Sicilie e con la compatta fedeltà dei romani a Pio IX ancora alla vigilia del 20 settembre 1870 ( della quale restano le testimonianze anche di diplomatici protestanti accreditati presso la Corte papale (2)), nonostante gli intensi sforzi del governo di Firenze per promuovere un qualche moto popolare che fornisse pretesto all’invasione «piemontese». L’Italia fu unificata non tanto per le gesta di armi italiane, quanto grazie all’oro massonico (che finanziò Garibaldi), alle trame diplomatiche, alle altrui vittorie (Sadowa) o sconfitte (Sedan).
Quanto alla Resistenza partigiana, essa fu una delle due parti in lotta di una guerra civile limitata all’Italia centrosettentrionale. Per di più la Resistenza partigiana fu divisa tra gruppi di orientamenti diversi e anche opposti, spesso tra loro in polemica feroce, che degenerò talvolta in scontri cruenti, dei quali il più famoso fu il massacro di Porzûs, dove nel febbraio 1945 i comunisti uccisero 18 partigiani anticomunisti delle formazioni Osoppo. Una parte dei partigiani era altresì ostile al governo del sud e privava quindi la sua azione di qualunque legittimità giuridica. Non fu invece una guerra civile l’Insorgenza, perché i collaborazionisti dei francesi furono troppo pochi per renderla tale. Come per esempio scriveva un cronista locale, «non era riuscito a’ francesi di trovare un solo disgraziato a Crema che si volesse addossare l’odiosità di promuovervi uno sconvolgimento» (3), ovvero di suscitare una rivolta giacobina contro la repubblica di San Marco.
Perché allora del Risorgimento e della Resistenza tutti conoscono probabilmente almeno il nome (la vera storia è un altro discorso), mentre temo ben pochi abbiano mai sentito parlare delle Insorgenze o ne abbiano letto qualcosa sui testi scolastici? Perché le Insorgenze sorsero in difesa del cattolicesimo. Come diceva san Giovanni Bosco, «l’unica vera lotta della Storia è quella pro o contro la Chiesa di Cristo» e i nemici della sposa di Cristo, deposte momentaneamente le armi, almeno in Occidente, la combattono soprattutto, non da oggi, cancellando la memoria della verità. In due modi: con il silenzio e con la menzogna. In molti casi prevale quest’ultima: le crociate, l’inquisizione, la conquista e l’evangelizzazione delle Americhe, il «caso Galileo» (chi sa, per esempio, che la «terribile» pena comminatagli consistette unicamente nella recita per tre anni, una volta alla settimana, dei sette salmi penitenziali). In altri, come appunto le Insorgenze, prevale il silenzio. Accompagnato da anatemi per zittire chi osasse romperlo per raccontare la verità. Ecco allora i Galasso, i Flores d’Arcais, le Macciocchi proclamare con sufficienza l’inopportunità «di sollevare certi temi», deplorare severamente il «furore reazionario insensato» di chi ricorda gli insorgenti, tappargli la bocca con il marchio d’infamia di borbonico. Giustamente Franco Cardini ha dichiarato di non capire le «intimidazioni di quegli studiosi che fanno della tolleranza la loro bandiera» (4); certo lo stupore dell’illustre storico fiorentino è una finzione dialettica, perché la storia dimostra ampiamente che nessuno è più illiberale di un liberale quando ha di fronte la Chiesa cattolica.
Occhiali ideologici
Se il silenzio o l’anatema non bastano, c’è sempre la deformazione della verità, o per menzogna deliberata, o per incapacità di comprendere, dovuta alle lenti ideologiche che si inforcano. La cultura italiana, storica e non, dalle università al giornalismo, è da almeno mezzo secolo dominata dal pensiero liberale e da quello marxista, nelle diverse sfumature; o, se si preferisce, da gruppi politici e di potere delle due correnti. Le fortune cambiano. Oggi per esempio tutti, o quasi, sono «liberali». Il regime lascia cadere i tabù per lui più innocui, tanto che oggi i reduci della Repubblica sociale italiana parlano alla radio di Stato. I percorsi culturali e politici variano: da Mosca alla City di Londra, da Predappio a Gerusalemme (meta, quest’ultima, per ora solo agognata), dall’eskimo di Lotta continua alle poltrone dirigenziali dei mass media capitalisti, dal marxismo al seggio di deputato di «centrodestra». Ci si può dividere su molte cose: forma di governo, sistemi elettorali. Resistenza o guerra civile. Un solo punto resta però fermo e unisce tutti, come i repubblicani nella Spagna del 1936, il motto volterriano: Écrasez l’infâme.
La difesa della memoria storica delle Insorgenze non è tuttavia solo una battaglia da combattere nell’interesse del cattolicesimo, è un dovere di qualunque italiano ed europeo che non voglia perdere la sua identità e con essa la sua libertà. Uno dei temi più dibattuti in Italia negli ultimi anni, in seguito al crollo della «prima» repubblica, al parto difficile della «seconda» e alla nascita di movimenti «separatisti», è quello della identità nazionale, dell’esistenza o meno di una Patria italiana, dei suoi fondamenti. Vengono così al pettine nodi ultrasecolari, che risalgono alla «leggenda nera» costruita a partire dal XVI secolo dai protestanti contro tutto quanto era cattolico («papista», secondo il loro gergo). Fino a quell’epoca l’Italia era giustamente considerata all’avanguardia in ogni campo, tanto da far esclamare a Erasmo da Rotterdam: «Italiani siamo noi tutti che siam dotti».
Ma ecco nel ‘700 Samuel Johnson (dominatore delle lettere inglesi, tanto da essere sempre citato come il «Dottor» Johnson per antonomasia) scrivere: «Un uomo che non è stato in Italia sarà sempre consapevole della propria inferiorità» (5).
Che cos’era accaduto? La riforma protestante aveva trovato le porte sbarrate soprattutto in Italia e in Spagna, i due Paesi pilastri della Controriforma, e contro quei due popoli (in tempi e con intensità diversi, perché la potenza della Spagna imperiale degli Asburgo non consentiva simili offese) fu scagliata una campagna denigratoria per denunciarne e irriderne il «fanatismo» cattolico e imputare a esso tutti i loro mali, veri o presunti. Ancora oggi una vasta pubblicistica istruisce gli italiani sul fatto che le loro disgrazie derivano dal papato, dalla mancanza di una riforma protestante e dalla Controriforma. Ecco che cosa scrive il principe del giornalismo e della divulgazione storica in Italia:
È curioso però che la lingua di questi «servi» fosse la lingua elegante dell’aristocrazia internazionale (anche in Boemia nel ‘600 l’italiano prevaleva sul francese e sul tedesco); che nel secolo XIX, alla vigilia del Risorgimento, fosse ancora la lingua franca della cultura europea e venisse parlata o compresa da molti statisti di Londra e di Vienna, che si parlasse italiano a Malta e a Nizza, in Corsica e in Dalmazia. L’italiano era molto più diffuso nel mondo prima della costituzione dello Stato unitario, nonostante i successivi sforzi per difenderlo della massonica Società Dante Alighieri.
Non poteva essere altrimenti, perché gli artefici del Risorgimento erano imbevuti di anticattolicesimo e sottoscrivevano lo stereotipo denigratorio dell’Italia creato dai protestanti. Il Risorgimento e lo Stato unitario furono precariamente costruiti sul rifiuto politico e culturale di quasi quindici secoli di storia italiana. La terza Roma, quella liberale della scienza e del progresso, avrebbe dovuto ricollegarsi alla Roma antica, pagana, cancellando la Roma cristiana e papale. Quello che stava in mezzo (con la parziale eccezione del Rinascimento) era epoca di oscurantismo e di regresso: il Medioevo era l’«Italia dei secoli bui», l’epoca del barocco e della Controriforma era l’«Italia della decadenza». (7) Il papato, sulla scorta di Machiavelli e Guicciardini, era accusato di aver impedito, con la presenza del potere temporale, l’unificazione politica della penisola. In realtà, come già osservato da Ludovico Antonio Muratori, la presenza del papato a Roma preservò l’Italia da un destino ben peggiore della frammentazione politico-istituzionale: la spaccatura tra un Settentrione provincia tedesca, destinato forse a divenire luterano, e un Meridione preda musulmana. Senza papato l’Italia sarebbe oggi nelle condizioni della ex Jugoslavia.
Cavour conosceva bene Ginevra e Londra e per la sua anglofilia era soprannominato «milord Camillo», ma non era mai stato a Roma e a Napoli. Uno dei suoi immediati successori, Luigi Carlo Farini, luogotenente nel 1861 nelle province meridionali, di esse scriveva: «Questa è Affrica, al cospetto di questa gente i beduini sono fior di virtù civili». (8) «Glorificare i diritti della civiltà sulla terra del Sillabo e del dogma», lottare «per la verità contro l’ignoranza, contro il pregiudizio e contro l’errore», questi i propositi con i quali il Risorgimento voleva andare a Roma, condividendo l’immagine che di essa aveva lord Shaftesbury, capo degli evangelici inglesi e grande sostenitore di Cavour: «Una metropoli isterilita nei secoli, corrotta e tirannica [...] incarnazione della crudeltà, del dispotismo, dell’ignoranza, della falsità» (9).
L’Italia aveva sempre avuto nella fede religiosa la sua unità, ben più preziosa di quella politica: «Signore [...] benedite questa Penisola», disse il venerabile papa Pio IX nell’allocuzione del 6 gennaio 1875, «che quand’era divisa in più Stati, era unita colla fede; ma ora che si dice politicamente unita, è seminata di templi protestanti, di scuole eterodosse, e di altre simili istituzioni, che hanno missione di dividere l’Italia nella fede, nel culto, nella religione, per dar luogo alle istituzioni di Satana, il quale entra volentieri a regnare, ma ha per simbolo il Nullus ordo, e il Sempiternus horror». (10) Lo Stato piemontese e poi italiano si applicò a un’opera di scristianizzazione che andava ben oltre il semplice confitto territoriale sul potere temporale e Roma capitale. (11) Tra l’altro, l’odio e la furia antireligiosa dei «padri della patria» risorgimentali arrecò in pochissimi anni più danni al nostro patrimonio artistico di mezzo millennio di guerre: archivi di ordini religiosi bruciati e usati come carta straccia, capolavori confiscati ai conventi disciolti venduti a poco prezzo agli stranieri, chiese (ma anche il Palazzo ducale di Urbino, colpevole di essere stato sede del legato pontificio), trasformate sistematicamente in depositi del monopolio statale del sale, che con le sue esalazioni distrusse gli affreschi.(12) Perfino il Castello Sforzesco di Milano rischiò di essere distrutto dalla furia iconoclastica di una classe politica decisa a fare tabula rasa del passato.
Identità nazionale
Sarebbe ora di riconoscere l’errore di fondo di disprezzare la Patria concreta, creando una Patria astratta, «un’invenzione dei massoni ottocenteschi che avevano in mente, come modello, la Francia e l’Inghilterra e non sapevano cos’era il loro Paese». (13) Invece si continua a cercare modelli Oltralpe, a imputare i difetti del sistema politico e della vita civile odierni al passato preunitario; e, ahimè, una parte dei cattolici corre in soccorso di quei difensori tardivi e interessati della Patria risorgimentale, ai quali ben si applica il detto del già citato Dottor Johnson: «Il patriottismo è l’ultimo rifugio di un briccone». Con il Santo Padre Giovanni Paolo II: «Non possiamo fare a meno di ringraziare Dio» per il «patrimonio di fede e di cultura, che è stato posto alle basi della storia d’Italia, e che nel corso di duemila anni ne ha progressivamente plasmato lo sviluppo. Ci rendiamo conto con chiarezza del fatto che la divina Provvidenza per mezzo di Pietro ha legato in modo particolare la storia dell’Italia con la storia della Chiesa» (14). «L’Italia come nazione ha moltissimo da offrire a tutta l’Europa», ha dichiarato in un’altra recente occasione il Sommo Pontefice. «All’Italia, in conformità alla sua storia, è affidato in modo speciale il compito di difendere per tutta l’Europa il patrimonio religioso e culturale innestato a Roma dagli apostoli Pietro e Paolo». (15) Solo nella fedeltà a questa vocazione, nello stesso spirito degli insorgenti, l’Italia potrà avere un futuro.
Quale il nesso tra le Insorgenze e questo discorso sulla Patria e l’identità nazionale? Uno dei luoghi comuni della polemica contro l’Italia della Controriforma e preunitaria è quello sintetizzabile nei detti «Franza o Spagna basta che se magna» e «gli italiani non si battono», dei quali le Insorgenze sono evidentemente una clamorosa smentita. Peraltro quei due pregiudizi sono comunque falsi e privi di senso. Alcuni dei più grandi generali dell’epoca moderna e di tutti i tempi furono italiani: il principe Eugenio di Savoia, Raimondo Montecuccoli, Ottavio Piccolomini, Ambrogio Spinola, Alessandro Farnese, Prospero Colonna. A Lepanto due squadre navali su tre erano comandate da italiani: Agostino Barbarigo e Gianandrea Doria, nipote dell’altro grande ammiraglio Andrea; e italiani di tutte le regioni erano la grande maggioranza dei combattenti: «A leggere le liste dei nomi dei comandanti che combatterono a Lepanto, nomi di ignoti e di nobili casate di tutta Italia, si vede davanti un’Italia, sia pure per breve ora, unita nel sacrificio, nella lotta, nella vittoria». (16) I veneziani Marcantonio Bragadin e Francesco Morosini furono gli eroici difensori di Cipro e di Creta. Un genovese, Giovanni Giustiniani Longo, a capo di un manipolo di compatrioti, era accorso all’estrema difesa di Costantinopoli dai turchi nel 1453. Il francescano san Giovanni da Capestrano fu l’anima della Resistenza contro i turchi; aveva settant’anni quando, nel 1456, partecipò alla difesa di Belgrado, dove per undici giorni mai abbandonò il campo di battaglia: «Entrò nelle schiere dei combattenti», scrive Piero Bargellini (17), «dove era più incerta la sorte delle armi, incitando i cristiani ad avere fede nel nome di Gesù», innalzando il suo stendardo con il monogramma bernardiniano di Cristo Re e una pesante croce di legno. Due secoli dopo un altro francescano, il cappuccino Marco d’Aviano, la cui statua campeggia sulla facciata della Kapuzinerkirche nella capitale austriaca, consigliere per un ventennio dell’imperatore Leopoldo I, fu l’eroe della vittoriosa difesa di Vienna del 1683 e l’anima della Resistenza cristiana contro gli ottomani anche a Budapest (1684 e 1686), Neuhäusel (1685), Mohács (1687), Belgrado (1688). Tutti questi condottieri furono accomunati da una caratteristica: l’avere combattuto contro gli eretici e gli infedeli, al servizio del Papa, dell’Impero, della Spagna cattolica o di Venezia, baluardo cristiano nel Mediterraneo orientale. In Italia, scrive Rodolico, «dal XVI al XVIII secolo vi sono forze morali religiose mirabili, che salvarono l’unità religiosa del mondo latino; vi sono forze militari magnifiche di marinai di Venezia, di soldati di Carlo Emanuele I sconfitti più volte e non mai vinti, di capitani e soldati dell’Italia meridionale e della Lombardia spagnola, che militarono valorosamente negli eserciti d’Europa» (18). I denigratori osservano allora che, sì, vi furono grandi generali e coraggiosi soldati, ma dovettero disgraziatamente servire non la Patria, l’Italia unita che non c’era, ma lo «straniero». Curiosa osservazione. Come se combattere per la civiltà cristiana ed europea fosse meno nobile che servire le ambizioni nazionalistiche ed espansionistiche di un singolo Stato. Se si guarda poi alle vicende belliche dell’Italia unita, con tutto il dovuto rispetto per chi fece il suo dovere «per il Re e per la Patria» e con le doverose eccezioni, non sembra che le virtù militari degli italiani, soprattutto dei loro capi, abbiano tratto grande giovamento dalla costituzione di uno Stato unitario.
È poi vero che il popolo non si batteva e accettava supinamente qualunque nuovo padrone? Anche qui la critica si fonda su una evidente contraddizione. Da un lato si condannano le guerre di religione che coinvolgevano le popolazioni, dall’altro si vorrebbe che il popolo avesse preso parte alle contese tra le potenze e si fosse armato contro i francesi, gli spagnoli o gli austriaci. In un’epoca prenazionalistica in cui un territorio passava senza scandalo da un sovrano all’altro in seguito a vicende belliche o dinastiche, come gli altri popoli europei, gli italiani, a parte rivolte marginali «alla Masaniello», giustamente non si ribellavano all’autorità costituita, comunque sempre cattolica e sempre rispettosa quindi dei diritti naturali, in primo luogo quello alla vera religione. Ma quando entrava in gioco la fede gli italiani si battevano. Agli albori dell’età moderna, nel 1480, gli ottocento martiri di Otranto rifiutarono di abiurare la fede cattolica pur di avere salvi la vita e i beni, secondo la promessa degli assedianti turchi; presero le armi e continuarono a combattere anche dopo la ritirata delle truppe aragonesi e, sconfitti, respinsero la grazia a prezzo dell’apostasia. Nel 1620, all’altro estremo d’Italia, gli abitanti della Valtellina insorsero contro i grigioni luterani in difesa della religione cattolica e li sconfissero. All’inizio dell’età contemporanea fu tutta l’Italia a insorgere contro gli invasori francesi in difesa della religione. Dunque gli italiani si battono, eccome!, quando sono in gioco i valori supremi.
Sono Insorgenze contro i francesi, ma, giustamente possono essere chiamate anche antigiacobine; infatti il campo della politica religiosa fu quello nel quale il regime del Direttorio invertì meno la rotta rispetto agli anni immediatamente precedenti e i francesi furono combattuti non tanto perché invasori stranieri, quanto perché anticattolici e rivoluzionari. Nelle istruzioni del 3 febbraio 1797 al generale Bonaparte, il Direttorio, premesso «che la religione romana sarà sempre la nemica inconciliabile della Repubblica», indicava «un punto essenziale» per «annientar(n)e» l’influenza: «distruggere [...] il centro di unità della Chiesa romana [...] distruggere il governo papale». (19) Era la stessa convinzione propria poi di molti protagonisti del Risorgimento e dei loro sostenitori protestanti stranieri, che la Chiesa non sarebbe sopravvissuta alla perdita del potere temporale. Le Insorgenze furono quindi la manifestazione più clamorosa della vera identità nazionale e della vera essenza del popolo italiano: il cattolicesimo militante. Cattolicesimo militante e tradizionale che già si era manifestato, prima dell’arrivo dei francesi, con il forte malcontento dei lombardi per l’illuminismo dell’imperatore Giuseppe II in campo religioso e con l’aperta rivolta dei toscani contro le riforme gianseniste volute dal vescovo di Pistola Scipione de’ Ricci e dal granduca Pietro Leopoldo. (20) Ecco spiegato il silenzio sulle Insorgenze: perché contrastano con la vulgata denigratoria messa in giro dai protestanti anticattolici e fatta propria da chi si vergogna della propria storia e della propria tradizione.
Delle Insorgenze però si può anche deformare il significato, negando dignità agli insorgenti, stravolgendo le loro motivazioni, facendoli passare per precursori del Risorgimento. Sono le tre posizioni di chi guarda alle Insorgenze attraverso le lenti deformanti dell’ideologia, (21) rispettivamente liberale, marxista o nazionalista. La negazione della dignità degli insorgenti avviene degradando il popolo a plebe nel momento stesso in cui osa mettere in discussione la Rivoluzione. Tale meccanismo, derivante dal concetto di «volontà generale» di Rousseau, è stato magistralmente spiegato da Augustin Cochin: «Esiste una volontà del popolo a priori, i princìpi. Se il popolo reale, la “moltitudine”, decide secondo quei princìpi, bene. In caso contrario è il popolo ad avere torto, ed esiste un organismo in grado di correggerlo, il popolo delle “società”». (22) Perfettamente in questa linea, il neogiacobino Paolo Flores d’Arcais osserva appunto a proposito delle Insorgenze popolari antifrancesi che «la categoria di popolo è una delle più ambigue e si presta a un uso indecente [...] l’unico popolo che una democrazia riconosce è quello che nasce dalla somma di tanti individui liberi, e quindi cittadini» (23): è sottinteso che la qualifica di cittadino va richiesta al club rivoluzionario, alla loggia, al maître à penser, alla cellula, e la si ottiene pensando e agendo come essi hanno stabilito. Nel caso di Verona vi fu un’applicazione da manuale dei princìpi giacobini. (24) Le elezioni del 2 luglio 1797 del Governo centrale Veronese, Legnaghese e Colognese, indette dagli occupanti francesi, videro infatti l’esclusiva elezione dei protagonisti delle Pasque e dei più noti antirivoluzionari. Nessun problema; su richiesta del periodico giacobino locale, il generale Augereau annullò l’elezione. Tutti ricordiamo come la vittoria del «centrodestra» in Italia nel 1994 fu seguita da un coro di critiche degli intellettuali di sinistra al suffragio universale. Personalmente rimasi divertito ad ascoltare l’indignazione di una collega di sinistra che si lamentava: «Ti rendi conto? Il voto della mia cameriera [disse proprio così, riferendosi all’infedele colf che, traviata da Rete 4, aveva votato per Berlusconi] vale quanto il mio!». (25) Qualche anno fa mons. Jacques Gaillot, il prelato francese allontanato dalla diocesi per le sue eresie, richiesto in un’intervista sull’Unità se era favorevole all’elezione dei vescovi da parte dei fedeli, ha significativamente risposto: «Non è detto che questa sia la soluzione. Se la popolazione è tutta conservatrice, il rischio è di avere un vescovo conservatore. Bisogna trovare dei modelli misti» (26). Le Insorgenze antifrancesi combattono i «sacri» princìpi dell’’89, non hanno quindi diritto alla dignità di grande evento storico.
Nella visione marxista le Insorgenze sono essenzialmente un episodio della lotta di classe. La rivoluzione francese è per eccellenza la rivoluzione della borghesia; il popolo vede deluse le sue speranze di progresso sociale, comprende che i nuovi padroni, i borghesi, soprattutto se noveaux riches, sono assai più avidi dei vecchi, i nobili, e che la nuova organizzazione socioeconomica sarà assai più dura della vecchia per le classi popolari. Non essendo ancora sufficientemente illuminato sui benefici del socialismo, il cui sol dell’avvenire emana ancora solo i pochi bagliori dell’aurora, il popolo si aggrappa al vecchio regime, lasciandosi strumentalizzare dai nobili e dal clero reazionario. È innegabile che il popolo percepì istintivamente che le repubbliche giacobine erano anche una grande ruberia a favore dei nuovi padroni borghesi, tanto che a Napoli si diceva «chi tiene pane e vino ha da essere giacubine» e si cantava «llibertè, egalitè / tu arruobbe a mme, io arrobbo a tte!», che a Milano diventava «Liberté, Fraternité, Egalité / I Franzes in carroccia e nun a pè». Ma la motivazione prima delle Insorgenze non fu di carattere economico e sociale, ma religioso in senso controrivoluzionario, come è dimostrato dalla stessa spontaneità e immediatezza della maggior parte delle Insorgenze, che scoppiarono prima che il popolo potesse costatare il peggioramento delle sue condizioni e comprendere la falsità della promessa redenzione. Uno storico, Carlo Zaghi, che ha dedicato tutta la sua vita a studiare, con decisa simpatia per la rivoluzione, il periodo rivoluzionario e napoleonico e che ha parole di disprezzo per gli insorgenti, negando ogni dignità alle loro azioni e motivazioni, riconosce però che essi non erano «uomini delusi nelle loro speranze, che attendevano dai francesi e dai loro partigiani migliori condizioni di vita». (27)
L’interpretazione nazionalista delle Insorgenze si trova compiutamente esposta nel volume che Giacomo Lumbroso pubblicò nel 1932, la prima ricostruzione complessiva del fenomeno, e nelle opere generali di Ettore Rota e Niccolò Rodolico. (28) È l’interpretazione favorita dal clima politico e culturale del fascismo, che tendeva non a rinnegare il Risorgimento, ma a presentarsi come la sua compiuta realizzazione, superandone i limiti, in primo luogo il contrasto tra Chiesa e Stato e l’anticattolicesimo. Questi autori danno un giudizio positivo delle Insorgenze, viste però come il primo segno della rinascita morale e civile dell’Italia, l’anticipazione del risorgimento. Tale interpretazione si ferma però a un paragone esteriore, superficiale e inesatto: insorgenti e patrioti del Risorgimento combatterono entrambi gli stranieri. Ma, a parte che diversi sovrani preunitari erano italiani a tutti gli effetti, forse più dei Savoia che li spodestarono, come considerare precursori del Risorgimento anticlericale e anticattolico coloro che insorsero proprio in difesa della religione? Un illustre storico come Rodolico, certamente favorevole al Risorgimento, riconosce però che esso non seppe avere dalla propria parte «quella massa [di popolo che] aveva dato allora copioso il suo sangue per la religione e per la monarchia [...] lottando contro lo straniero, che esecrava e come eretico e come usurpatore e rapinatore». (29) Come accomunare il patriottismo conservatore, monarchico e religioso, pro aris, rege et focis, degli insorgenti, con il liberalismo, radicalismo e repubblicanesimo dei patrioti risorgimentali? Per questi ultimi la Patria era un progetto concepito nelle logge massoniche e nelle vendite Carbonare, un’idea astratta contraria alla tradizione (per questo l’Italia unita ha basi così fragili), mentre gli insorgenti italiani potevano far proprie le parole di uno dei leggendari capi vandeani, il Cavaliere de Charette:
Piuttosto che il primo segnale del «risveglio» risorgimentale, le Insorgenze furono dunque il frutto magnifico di più di due secoli di Controriforma cattolica, che evidentemente non aveva infiacchito gli animi, ma li aveva predisposti alla difesa militante del trono e dell’altare. Sant’Alfonso de’ Liguori «preparò» l’Armata della Santa Fede, come san Luigi Maria Grignion de Montfort aveva «preparato» la Vandea. Gli eredi degli insorgenti non furono quindi i «patrioti» risorgimentali, ma gli zuavi pontifici, i «briganti» legittimisti, che combatterono per i loro stessi valori.
Perché vinse il Risorgimento
I sostenitori della continuità tra insorgenze antifrancesi e Risorgimento, anche per negare il carattere minoritario di quest’ultimo, osservano che comunque esso trovò scarsa opposizione, citando come esempio l’esito dei plebisciti. Non occorre spendere troppe parole sul loro valore assolutamente nullo alla luce delle più elementari regole di correttezza elettorale: perfino un entusiasta fautore del Risorgimento e acerrimo nemico del papato come il ministro degli esteri inglese lord John Russell ammise che essi avevano «poca validità». Una lettera di Bettino Ricasoli al suo scrivano di Brolio testimonia la farsa e il dolo di quelle consultazioni:
Va comunque riconosciuto che l’antirisorgimento ebbe grande vigore intellettuale, ma non riuscì a ripetere la mobilitazione delle Insorgenze; per almeno tre ragioni. Innanzitutto gli errori dei sovrani della restaurazione che, con l’eccezione dei duchi di Modena, nulla fecero per organizzare la controrivoluzione; anzi, il caso del principe di Canosa insegna, la scoraggiarono. «Il problema agitato da ogni parte», osservava il conte de Maistre già nel 1815, (32) «è questo: trovare i mezzi per ristabilire l’ordine colpendo il meno possibile i Rivoluzionari e i loro atti. Mentre il problema, al contrario, dovrebbe essere questo: trovare i mezzi per schiacciare i Rivoluzionari e i loro atti, per quanto possibile, senza mettere a repentaglio le legittime Sovranità». In secondo luogo la rivoluzione risorgimentale vinse perché si presentò agli italiani, naturaliter monarchici, con la copertura «moderata» dei Savoia, una dinastia millenaria i cui titoli di fedeltà al cattolicesimo non avevano nulla da invidiare, per il passato, agli Asburgo e ai Borbone; anzi, guardando al periodo dell’illuminismo, erano in verità superiori. Infine, ancora grazie all’immagine moderata fornita da Vittorio Emanuele II e da Cavour, il Risorgimento ottenne l’appoggio delle grandi potenze liberali, Gran Bretagna e Francia, mentre gli Stati conservatori, Prussia e Russia, stettero a guardare, anche perché ai luterani e agli ortodossi, come agli anglicani, la caduta del potere temporale non poteva che fare piacere. A differenza del 1799, nel 1859 non arrivò in Italia nessun generale Suvorov. Eppure mezza Italia, nel Mezzogiorno, prese le armi per il re legittimo, gli eserciti del duca di Modena e del duca di Parma seguirono compatti i sovrani in esilio, nei 18 mesi successivi all’unità vi furono solo 121 disertori dall’esercito austriaco passati all’Italia, mentre ben 4.633 soldati italiani passarono all’Austria (33). Viva San Marco!, gridavano a Lissa gli equipaggi veneti della marina austriaca.
Ma occorre fare giustizia di un’ultima interpretazione deformante delle Insorgenze controrivoluzionarie, che abbiamo visto farsi strada in occasione del bicentenario della rivoluzione francese a proposito della Vandea propriamente detta, ma che non dubitiamo verrà ripresentata anche a proposito della «Vandea italiana». Essa proviene da quei cattolici che condannano gli eccessi della rivoluzione francese, ma si rifiutano di respingerla in blocco, non comprendendo che essa è un processo in cui la fase moderata è la necessaria premessa di quella giacobina e del terrore. Per costoro l’alleanza fra trono e altare, la monarchia sacrale, è imbarazzante, appartiene all’èra della vecchia Chiesa preconciliare, che ha sempre condannato la dottrina liberale della separazione di principio tra Chiesa e Stato (34). Di qui il tentativo di snaturare la controrivoluzione vandeana e le Insorgenze, sottacendone o negandone il carattere politico monarchico e riducendole alle pure motivazioni religiose, anch’esse viste in un’ottica distorta. (35) Già nel 1989, un prelato vandeano di nascita, ma evidentemente non di cuore aveva presentato i suoi compatrioti insorti come combattenti per i diritti dell’uomo e in particolare per la libertà religiosa intesa alla maniera del concilio Vaticano II. Quanto forzata e arbitraria sia questa interpretazione non occorre dilungarsi a dimostrare. Basti pensare che la prima vittima della insurrezione vandeana, il 7 marzo 1793, fu il parroco costituzionale di Chateauthibault e i catechismi diffusi dal clero fedele al Papa prescrivevano che «è meglio mancare alla Messa festiva che assistere a quella dei vescovi, parroci o vicari intrusi». (36) Già nel 1791 in varie regioni della Francia il popolo si era opposto con la forza all’arrivo del clero costituzionale. In Spagna, gli insorti antifrancesi del 1808 in più di un caso reclamavano il ritorno della santa Inquisizione, una istituzione intorno alla quale sono nate superficialmente molte «leggende». In tutta Italia gli insorgenti non «dialogavano» con il clero progressista, ma lo cacciavano, come i bergamaschi della Valle Imagna che «scacciarono i preti rivoluzionari, facendoli scendere a forza dai pulpiti e allontanandoli a male parole dalle loro chiese». (37)
I vandeani combatterono per Dio e per il re. Gli insorgenti italiani impugnarono le armi per la religione e per i sovrani legittimi, tra i quali occupava ancora un posto d’onore nella coscienza delle popolazioni italiane il Sacro Romano Imperatore, al quale inneggiavano anche coloro che non erano suoi sudditi, come gli abitanti dello Stato della Chiesa e gli stessi veneti, che ovunque accoglievano con entusiasmo le truppe imperiali, i «soldati cesarei», come li definivano alcuni cronachisti, mentre in epoca napoleonica gli insorgenti esaltavano l’imperatore, ma «quello vecchio, quello vero». La difesa della religione richiedeva la restaurazione del sovrano legittimo; nonostante le riforme illuministiche di molti principi, per il popolo il sovrano era ancora circonfuso di sacralità. (38) Ecco perché le Insorgenze si spiegano veramente solo alla luce delle categorie di rivoluzione e controrivoluzione, come ammette anche lo Zaghi, sia pure con un linguaggio che non è certo il nostro:
Le Insorgenze italiane furono dunque un evento pienamente inserito in una tradizione italiana plurisecolare. Furono anche la manifestazione nazionale di un movimento che coinvolse tutta l’Europa: dalla Francia, dove le rivolte controrivoluzionarie cominciarono nel 1792, prima ancora che esplodesse la Vandea, all’attuale Belgio, dalla Svizzera a Malta, dalle regioni tedesche sulla riva destra del Reno ai Paesi Bassi, dal Tirolo alla Spagna. Di questo vasto movimento, manca ancora una ricostruzione generale che ne valuti appieno il significato nel contesto della storia europea. (40)
Nuova bibliografia
In Italia stiamo fortunatamente vedendo una fioritura di ricerche di àmbito locale o di carattere più generale. Tra esse il già ricordato volume di Agnoli sulle Pasque veronesi. Dalle sue pagine emerge il triste quadro di violenze e vergogne che, come in tutte le rivoluzioni, accompagnò l’invasione francese e la «democratizzazione» del Veneto: le vendette personali camuffate da repressione degli oppositori, l’interesse privato dei filogiacobini che, preparandosi a tradire, si preoccupano, come il Salimbeni, di mettere in salvo i loro averi, mentre i francesi arraffano tutto il possibile, a cominciare dai pegni della povera gente depositati al Monte di pietà, il libero sfogo all’immoralità dei costumi. Nel volume si trovano soprattutto diverse conferme del discorso sin qui fatto, ma non manca anche un’analisi dei limiti della controrivoluzione. Innanzitutto, a smentita appunto della «viltà» e «apatia» degli italiani, viene sottolineato l’entusiastico accorrere dei volontari alle cernide, le tradizionali milizie collettizie (41) della repubblica (aristocratica) veneta, ben al di là delle aspettative, tanto da avere difficoltà ad armare tutti i militi. È opportuno ricordare a questo proposito una bella pagina di Niccolo Rodolico:
Bell’affresco certo, anche se, coerentemente con l’impostazione nazionalistico-risorgimentale, si insiste sulla lotta allo «straniero», mentre si dovrebbe parlare più di lotta alla rivoluzione. Il quadro sottolinea anche la «viltà» degli antichi sovrani e governanti e, preso alla lettera, lascerebbe intendere che solo i «contadini» resistettero. Una «viltà» dei sovrani per la quale si potrebbero trovare molte ragioni: alcuni Stati, come il Granducato di Toscana e lo Stato della Chiesa non erano coinvolti in guerre da più di due secoli (un beneficio non da poco per le popolazioni) e lo spirito militare si era di conseguenza affievolito; il re di Napoli e di Sicilia e il re di Sardegna si ritirarono nelle loro isole, attendendo l’intervento delle grandi potenze; tutti, non diversamente, allora e in seguito, da austriaci, russi e prussiani, ebbero difficoltà ad affrontare il nuovo tipo di guerra imposto dalla rivoluzione (43) e da Napoleone. In molti casi, i sovrani e i nobili si trovavano disorientati di fronte alle conseguenze estreme di quell’illuminismo, la cui filosofia e la cui prassi avevano adottato senza prevederne gli esiti. La rivoluzione e l’invasione francese provocarono un chiarimento, inducendo molti nobili e sovrani a ripudiare l’illuminismo e a ritornare al cattolicesimo, mentre altri aderirono invece al liberalismo e poi al Risorgimento. La nobiltà veneziana, il cui comportamento debole e rinunciatario è ben messo in evidenza da Agnoli, si distingueva per aver accettato non tanto le implicazioni politiche dell’illuminismo, quanto per averne «invece pienamente recepito l’aspetto morale fino a divenire il più perfetto esempio di quella società libertina che caratterizzò il modo di vivere di gran parte delle classi dominanti europee nell’ultimo quarto del XVIII secolo». Comunque le Pasque veronesi videro tra gli insorgenti la presenza di esponenti di tutte le classi (tra i condannati dai francesi vi furono nobili, sacerdoti, con in testa il vescovo Gian Andrea Avogadro, militari, un caffettiere, un calzettaio, un oste, un argentiere, un parrucchiere), e tra essi «una più numerosa e vigorosa presenza di esponenti dell’aristocrazia», nonostante le pavide autorità della Serenissima avessero provveduto a esiliare quelli notoriamente avversi alle idee «francesi». È questo un segno del carattere organico ancora mantenuto dalla società veronese di quel tempo e della minor penetrazione nel patriziato veronese e di Terraferma, rispetto alla nobiltà di Venezia, delle idee illuministiche. Si spiegano così le dimensioni cospicue e il carattere di sollevazione tipicamente cittadina e non rurale delle Pasque veronesi.
Giustamente osserva Agnoli che il popolo era rimasto inizialmente a guardare, fidando nella tradizionale saggezza dei suoi governanti. Viene qui accennato uno dei punti più importanti nella storia delle Insorgenze: l’atteggiamento del clero e della nobiltà, che spesso scoraggiarono le rivolte antifrancesi. A parte i pochi casi di adesione alle idee giacobine, molti ecclesiastici predicarono infatti la non resistenza agli occupanti francesi, o per mero opportunismo o per un’applicazione acritica della dottrina cattolica sulla sottomissione all’autorità. Anche qui le Pasque veronesi spiccano per il comportamento esemplare del clero, che, guidato dal vescovo Avogadro, non a caso legato alle Amicizie cristiane del venerabile Pio Brunone Lanteri, apostolo della controrivoluzione dottrinale, (44) non ebbe timore di predicare per la Patria e di impegnare le argenterie delle chiese per la difesa di Verona veneta e di Venezia stessa, affrontando poi la prigionia. Lo stesso vescovo, processato dal tribunale rivoluzionario, scampò il patibolo per un solo voto.
Anche i nobili, per innato timore del disordine, in vari casi, ma non appunto a Verona, si tennero alla larga dalle Insorgenze. Se a Napoli il principe di Canosa (l’unico dei pensatori controrivoluzionari a essere anche uomo d’azione) promosse l’Insorgenza, a Recanati il conte Monaldo Leopardi al contrario fece di tutto per scoraggiarla. (45) In generale, mancò poi qualunque collegamento tra gli scrittori controrivoluzionari e le Insorgenze. (46)
Le Pasque veronesi ci danno però l’esempio di un cappuccino settantaduenne, padre Luigi Maria da Verona (al secolo Domenico Frangini) fucilato in odio alla fede, senza altra colpa che di aver scritto e predicato contro i sacrilegi rivoluzionari. Non era un intellettuale, ma un umile frate; proprio per questo Dio gli concesse la grazia di capire e di agire secondo verità. (47) Lo accomuniamo nel ricordo a un altro frate veronese, anch’egli martirizzato dai nemici di Cristo, il domenicano san Pietro di Verona.
Massimo de Leonardis
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