da Il Gazzettino del 4 novembre 2008, pag. 11
Malborghetto Valbruna (Ud) - NOSTRO INVIATO - Risalgono la pianura e arrivano taciturni, indifferenti. Almeno dopo queste prime nevicate staranno alla larga: non possono lasciare tracce del loro passaggio. Sono soli, al massimo in due. Schivano gli incontri, disertano le osterie. Sembrano innocui escursionisti che battono sentieri isolati, con lo zaino a tubo carico di maglioni e vettovaglie. Invece nel sacco occultano scalpelli, utensili di curiosa varietà, spesso un metal detector smontato. Sono i rapaci della memoria.
La loro missione è rapinare le testimonianze storiche della Grande guerra. Sono tanti, sempre di più. E nel novantesimo anniversario della fine dell’immane mattatoio stanno dando il “meglio”: hanno rubato alcune fra le più belle targhe in pietra e marmo scolpite dai soldati al fronte sulle Alpi Giulie. Altre hanno resistito alle picconate, subendo tuttavia danni irreparabili. Così la storia viene scippata pezzo per mezzo: dove una targa indicava quale reparto e in quale periodo aveva scavato una trincea o una postazione, dove tanta umanità era vissuta nell’immanenza della morte e del gelo, proprio in questi luoghi sacri i rapaci tengono il loro cupo quartiere.
«Non lo fanno per denaro», spiega il recuperante solitario Davide Tonazzi, che al riatto di postazioni e alle pubblicazioni di libri sulla storia della Guerra nelle Giulie dedica ogni tempo disponibile. «Nessuno sta vendendo su Internet o ai mercatini ciò che è stato trafugato». Se li portano a casa, come le gavette, gli elmetti, gli spezzoni d’artiglieria. «Capisco che uno trovi e conservi perfino uno scudo in ferro a ridosso delle trincee, ma rubare queste targhe significa spesso rendere impossibile l’identificazione storica del luogo, le sue vicende. Così quei segreti restano muti per sempre».
Gli ultimi colpi di piccone hanno divelto una targa austriaca sullo Schwarzenberg, il Monte Nero sopra Valbruna che durante la guerra fu sbarramento in quota lungo la linea del Jôf di Miezegnot, conteso dagli Schützen della vallata agli Alpini friulani della 97ª Compagnia. Era alta 15 centimetri e lunga 40, indicava l’unità (Landsturm), la terza Compagnia, il primo plotone, la prima squadra. Stava in mezzo a un trinceramento lungo la parte inferiore della cresta, verso la Val Saisera. Non si arriva lassù per comode mulattiere e nemmeno i sentieri di guerra sono più percorribili, divorati dalle frane e dalla neve di novanta generali inverni. Bisogna farsi largo in mezzo ai fitti, infidi mughi. E sapere dove cercare. Un’altra targa, posta all’ingresso di una caverna di guerra, è sparita per sempre. Attaccata anche una seconda iscrizione sopra una sorgente, con tanto di poesia composta dai volontari carinziani. «Purtroppo alcuni libri mentori e preziosi come quelli di Antonio Scrimali e di suo figlio Furio - attacca il recuperante Davide - forniscono molte indicazioni. Loro e in parte io abbiamo fotografato e catalogato molte iscrizioni, questo aiuta. Ma in tutto ne sono state scoperte 450 nelle sole Alpi Giulie e chissà quante aspettano ancora. D’ora in poi non segnaleremo più la localizzazione precisa».
PONTEBBA Una targa posta nel 1917 all’imbocco di una caverna
di guerra che ha resistito ai ladri, ma è rimasta danneggiata
Arriva ad affermare che «siamo disposti, noi dell’associazione Amici di Valbruna, a pagare un compenso a chi fornirà notizie su quanto è stato trafugato dalle nostre montagne». E «se un ladro si pente, gli garantiamo fin d’ora l’anonimato», Ma almeno «restituisca ciò che appartiene alla memoria». In ogni modo d’ora in poi «dovremo ricavare un calco per ciascuna targa ritrovata, in modo da ottenerne una copia da esporre nei musei».
A Chiusaforte, nel Canal del Ferro, la Regione ha appena stanziato 1,4 milioni di euro per riattare e adibire proprio a museo il Forte del Col Badin. Un giovane appassionato del paese sale alle vecchie postazioni, spruzza una quantità di silicone (quello per sigillare i serramenti) sulle targhe e il calco è fatto. A casa, poi, lo riempie di gesso (ma si può fare anche con cemento) e la copia è pronta per il museo che verrà. È la medesima tecnica adottata dai Dolomitenfreunde, l’associazione internazionale che ha riattato le trincee sul Pal Piccolo e continua a rifornire di reperti il museo carinziano di Mauthen.
I rapaci non si fermano nemmeno davanti ai morti: le cronache ufficiali tacciono, ma di scheletri con brandelli d’uniforme se ne trovano ancora. «Anni fa, sul Granuda, un ragazzo ha rilevato col metal detector i bottoni di ferro di un soldato austriaco». La salma è stata recuperata e sepolta in un cimitero di guerra con gli onori militari. Ma «se ad agire è un rapace - accusa Davide Tonazzi - non si fa scrupoli di strappare bottoni, medaglie, croci e piastrine di riconoscimento lasciando sul posto le ossa scoperte di un caduto al quale sarà negato per sempre il ricordo, italiano o austriaco che sia».
Certo che «è furto a tutti gli effetti» e «chi riceve questo materiale è un ricettatore». Ma indagini di polizia sono quasi impraticabili: spesso i luoghi non sono accessibili ai più e per giunta le ricerche dovrebbero contemplare conoscenze storiche e geografiche che soltanto un recuperante veterano è in grado di vantare. Davide ha trovato negli anni diversi distintivi, scatolette di sardine ancora integre e una quantità di residuati d’armi e munizioni: «Quando finalmente avremo il nostro museo a Valbruna tutto questo sarà patrimonio della valle».
Lungo il Fella in ogni famiglia c’è la foto di un nonno combattente dall’una o dall’altra parte. Croci e medaglie d’Asburgo e Savoia. Sulle Giulie ciascuno ha nell’Italia una Madre Patria e nella vecchia Austria una Nonna Patria. I rapaci spogliano entrambe e offendono tutte le coscienze della montagna.
Maurizio Bait
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