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Storie

E se la svizzera
avesse invaso l’italia?

Sembra una boutade campata per aria ma non lo è. Quali sarebbero state le sorti della Grande Guerra se l’Italia avesse avuto anche lei un “fronte occidentale”?
Il Corriere del Ticino, ripreso poi da La Provincia di Como, svela i piani militari elvetici per invadere la Lombardia. La Confederazione temeva la spartizione del proprio territorio tra Germania e Italia, e per la regola “la miglior difesa è l’attacco”, aveva stilato un piano per arrivare con le armi fino a Milano. La “neutrale” Svizzera rappresentava realmente una minaccia per l’Italia, e infatti sul confine italo-svizzero ancora oggi troviamo fortificazioni e trincee per scongiurare lo “sconfinamento” rossocrociato, e per invaderlo a sua volta. Non solo, la Svizzera avrebbe potuto stipulare un’“alleanza bianca” con gli stessi austriaci, per lasciare loro un passaggio e prendere il nemico alle spalle.
Il momento delicato e i luoghi di un’importanza strategica straordinaria, scomodarono anche personaggi chiave del periodo. In uno dei due caseggiati che sul monte Generoso porta verso il confine rossocrociato, vi dimorò per un breve periodo Mata Hari, la discussa spia fucilata dai francesi il 15 ottobre 1917.
link Siamo andati sul monte Gordona (Como) per documentare le fortificazioni con alcune eloquenti immagini.

Marco Depaoli

Ulrich Wille

Il Generale Ulrich Wille (1848-1925) in rassegna nel 1916.
In Svizzera il grado di generale è attribuito solo in caso di guerra


da Il Corriere del Ticino dell’11 novembre 2008

Siamo alla fine degli anni Novanta. Durante un corso di ripetizione a Berna a due giovani laureati in storia ticinesi - Binaghi e Sala - viene chiesto di tradurre in italiano un lungo documento dattiloscritto in tedesco. libro La frontiera contesaSi tratta di un testo pubblicato sotto segreto militare di cui all’epoca esistevano solo due esemplari, oggi conservati uno all’Archivio federale di Berna e l’altro alla Biblioteca militare. I due leggono, traducono e trasaliscono. Scoprono infatti che la Svizzera e l’Italia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento erano pronte ad invadersi l’un l’altra. Tra le loro mani erano finiti i dettagliatissimi piani di Berna sia per difendere il Ticino in caso di invasione, sia per attaccare la grande potenza confinante. È questo, in estrema sintesi, il sorprendente contenuto del documento intitolato «Geografia militare della Svizzera e zone confinanti» e firmato nel 1914 da Arnold Keller, di cui Binaghi e Sala (poi aiutati da Michele Bösch, Flavio Maggi, Mattia Piattini e Ivano Tavernelli) hanno tradotto uno solo dei 34 volumi: quello dedicato al Canton Ticino. L’autore dell’opera ora riscoperta è garanzia del suo straordinario rilievo. Arnold Keller non era un oscuro funzionario dell’armata svizzera. Per molti anni è stato Capo di Stato Maggiore, la massima autorità militare.

Le reciproche paure
Qui si entra nel vivo di quegli scenari di guerra evocati all’inizio dell’articolo. Al termine dell’Ottocento la Svizzera temeva un accordo tra Italia e Germania per spartirsi il nostro Paese. La geografia non dava loro torto: la Svizzera e il Ticino sono il più logico corridoio di “scorrimento” tra il Sud e il Nord dell’Europa. Alla fine degli anni Dieci l’altro scenario temuto dagli elvetici (ma anche dagli austriaci) erano le mire espansionistiche del nazionalismo italiano. Nell’uno e nell’altro caso la reazione fu quella di prepararsi meticolosamente all’invasione da Sud. Nello stesso tempo Roma paventava una germanizzazione della Confederazione e considerava una minaccia gli apparati difensivi elvetici.

Le fortificazioni
Nasce in questo contesto un’autentica corsa alle fortificazioni alpine e prealpine da una parte e dall’altra del confine. Ma i primi a cominciare furono gli svizzeri. «Con un notevole sforzo finanziario», si legge nel libro di Binaghi e Sala, «si procedette alla costruzione delle opere fortificate lungo la linea di frontiera dal Vallese, al Ticino, fino ai Grigioni». Una scelta che invece di dissuadere il nemico alimentò le paure italiane «spingendo Roma a prendere delle contromisure, come la realizzazione di una barriera fortificata lungo i tratti più esposti del suo fronte settentrionale». A partire dall’11 l’Italia eresse fortificazioni sul Monte Orfano a difesa degli accessi dalla Val D’Ossola e dal lago Maggiore e piazzò appostamenti di artiglieria sui monti Piambello, Scerré, Martica, Campo dei fiori, Gino e Sighignola. E la Svizzera realizzò opere di sbarramento «a Gordola, Magadino, Monte Ceneri e sui monti di Medeglia». L’avvicinarsi delle fortificazioni svizzere alla linea di confine (dopo il Gottardo, il Ceneri) venne interpretato dagli italiani come una prova delle mire espansionistiche confederate verso Sud.

Il Ponte-diga di Melide sul lago di Lugano
Il Ponte-diga di Melide sul lago di Lugano

Attaccare per difendersi
Ma torniamo alle operazioni militari previste da Keller. In caso di un attacco italiano il colonnello aveva già messo in conto la perdita del Mendrisiotto, ritenuto indifendibile. Così si spiega la lucida determinazione a distruggere completamente il ponte diga di Melide: per impedire o quanto meno frenare l’avanzata dei nemici verso Nord. Keller ipotizzava una battaglia decisiva nel Luganese o nel fondovalle di Bellinzona. In caso di sconfitta l’ultimo baluardo, quello cruciale, sarebbe stato il Gottardo. È il peggiore dei casi ipotizzato: la perdita del Ticino. Fin qui i piani difensivi. Perché Keller non si era limitato ad immaginare un attacco dei soldati del tricolore. Aveva stabilito anche un piano d’attacco svizzero verso l’Italia. Le opzioni erano fondamentalmente due. La prima prevedeva la riconquista della Valtellina e della Val D’Ossola, che del resto erano state svizzere per secoli. Si trattava di “coprire” i fianchi del Ticino e riuscire a difenderlo. Solo così, infatti, le truppe dei Grigioni e del Vallese avrebbero potuto raggiungere il Ticino senza attraversare un territorio nemico. Valtellina e Val D’Ossola sarebbero poi servite come “merce di scambio” in occasione di futuri accordi di pace per riavere indietro i territori “forzatamente abbandonati” in Ticino e in Vallese.
La seconda opzione è da capogiro: un’invasione svizzera della Lombardia fino a conquistare Milano! Sarebbe delirante se non si tenesse conto che questa ipotesi era prevista da Keller unicamente nel caso in cui la Svizzera si alleasse con il potente Impero austro-ungarico. Fantastoria? Mica tanto. «Quando a Keller subentrò Sprecher von Bernegg, - spiegano Binaghi e Sala - lo Stato Maggiore svizzero aveva già preparato un trattato di alleanza con Vienna. Mancava solo la firma».

Mica tanto neutrali
E la nostra neutralità? «Contrariamente a quello che si pensa oggi - osserva Maurizio Binaghi - l’idea di neutralità, in quegli anni non era intoccabile, diciamo piuttosto che era funzionale alla sicurezza del Paese. Nel momento in cui la neutralità non fosse sembrata sufficiente a garantire la pace in Svizzera, si poteva benissimo rinunciarvi».
Lasciamo per ultima la domanda più importante: perché non andò a finire così? Perché non invademmo la Valtellina e/o la Val D’Ossola e/o la pianura padana? Nel rapporto tra politica e potere militare, alla fine, la spuntò la politica. «Quando ulrich willenel maggio del 1915 l’Italia entrò in guerra, Berna dovette decidere in fretta cosa fare», spiegano gli storici ticinesi, «L’esercito, allora guidato dal Capo di Stato Maggiore Sprecher von Bernegg - il successore di Keller - e dal generale Ulrich Wille (molto vicino ai tedeschi) premeva per accrescere il numero di truppe sul confine meridionale. Ma il Consiglio federale non lo assecondò. Molto probabilmente fu decisivo il fatto che in governo ci fosse un ticinese: Giuseppe Motta».
È vero che la storia non si fa coi “se” e coi “ma”, tuttavia, a leggere i piani segreti del nostro Paese per difendersi o per attaccare l’Italia, non si può fare a meno di pensare che se nel lontano 1915 il governo federale non avesse trattenuto il suo braccio armato, forse oggi il Mendrisiotto sarebbe provincia di Como. Oppure la Valtellina e la Val D’Ossola sarebbero due distretti del nostro Cantone. O, addirittura, Milano sarebbe la maggior città della Svizzera. Fantastoria e fantastorie, probabilmente, che il libro «La frontiera contesa» - colmando un vuoto storiografico sul Ticino tra Ottocento e Novecento - ci permette ora di valutare come qualcosa di molto più concreto di semplici fantasie. E di cui i chilometri di fortificazioni di montagna - monumenti alla reciproca diffidenza italo-svizzera - sono i silenziosi, mimetizzati testimoni.

Carlo Silini


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