dal Corriere delle Alpi del 17 settembre 2005 pagina 34
Teofilo Gillarduzzi “de Jobe” è un’autentica istituzione per Cortina. Non solo è il concittadino più anziano, con i suoi 106 anni festeggiati lo scorso 6 settembre. Teofilo è anche il manifesto del motto ampezzano “Mai Zéde”, non mollare mai, perché nella sua vita non ha mai ceduto a compromessi.
Nato in Ampezzo (al tempo il paese si chiamava solo Ampezzo) il 6 settembre 1899, frequentò, come d’uso in paese, la Scuola popolare, che durava 6 anni, era obbligatoria, e prevedeva l’istruzione dei bambini in lingua italiana (il ladino ancora non era riconosciuto come minoranza linguistica, iniziò solo nel 1906 la sua tutela) con solo qualche ora di tedesco. Anzi, l’Inno imperiale (l’aria è quella dell’attuale inno tedesco di Haydn), era tradotto in tutte le lingue dell’impero, compresa quella italiana, e a scuola, ogni mattina, i bambini lo cantavano nella loro madrelingua.
Lo stesso Teofilo, ricorda ancora il testo:
Serbi Dio dell’Austria il Regno
Salvi il nostro Imperator!
Nella fe’ che gli è sostegno
regga noi con saggio Amor.
Difendiamo il serto avito
che gli adorna il regio crin
Sempre d’Austria il soglio unito,
sia d’Asburgo col destin.
Bizzarrie linguistiche a parte, era prassi che i giovani, dopo la scuola dell’obbligo, per migliorare il proprio tedesco, o almeno impratichirsi, magari imparando anche un lavoro, si recassero nella vicina Val Pusteria, dove, prestando servizio in cambio dei soli vitto e alloggio presso contadini o artigiani, apprendevano i lavori più svariati e la lingua “internazionale” dell’Impero. Così anche Teofilo fece, e venne mandato a Bressanone per svolgere la professione di sarto.
Mentre era lontano da casa, la politica non si fermò, e il vicino Regno d’Italia, nel giro di pochi anni, da alleato diventò prima neutrale e poi nemico dell’Austria Ungheria, fino a quando, il 28 maggio 1915, i “regnicoli” (così venivano definiti cittadini e soldati del regno d’Italia) entrarono e «occuparono» (questo è quanto era scritto per le prime settimane sui documenti ufficiali del regio esercito, poi, la definizione mutò in «liberare») l’Ampezzo.
Da quel drammatico giorno, i contatti del giovanissimo Teofilo con i propri cari rimasti a casa si assottigliarono, mentre continuò ad averne con i fratelli e le sorelle che si trovavano entro i confini della monarchia danubiana.
Erano contatti epistolari piuttosto frequenti e proprio muovendosi tra queste lettere e i ricordi di nonno Teofilo, il professor Paolo Giacomel, esperto di storia locale, ha ricostruito con dovizia di particolari la Prima guerra mondiale vissuta da Teofilo Gillarduzzi, fino alla prigionia e al ritorno in Ampezzo nel 1919.
«Teofilo Gillarduzzi ha vissuto un autentico dramma. Personale, per la lontananza da casa a causa della guerra in età giovanissima, e familiare, con un fratello schierato sul fronte opposto (si era infatti trasferito nel Regno d’Italia anni prima dell’inizio delle ostilità per cercare lavoro) e le notizie della morte di altri parenti o conoscenti, sparpagliati sui vari fronti».
Insomma, una giovinezza non propriamente tranquilla.
«Per Teofilo, quindicenne, la seconda leva di massa (convocata nell’autunno del 1914) fu un modo per rivedere molti ampezzani, che si raccolsero a Brunico prima di partire per il fronte. Una fotografia lo ritrae infatti con in mano il cartello “per la Patria 1914” tra uomini abili, alcuni di essi già in uniforme, altri ancora in abiti civili, ma pronti per essere avviati sui fronti russo e serbo. Nonostante il bisogno impellente di uomini», continua a raccontare Giacomel, «Gillarduzzi tornò a lavorare e fu arruolato solo nel 1917. Anno in cui, mentre con il suo reparto d’artiglieria stava per essere trasferito sul fronte francese (in aiuto alla Germania), ricevette l’ordine di inseguire le truppe italiane in rotta dopo Caporetto».
Di quei giorni (6 novembre) è una lettera alla sorella Rosa, a Frau Win Stainech / Villa Vrosz in Brixen / Tirol, in cui Teofilo, in attesa del battesimo del fuoco, chiede informazioni su Cortina, che aveva sentito tornata in mano austriaca: «Io aspetto ogni giorno notizie da te, eò sentito che la nostra patria sia dinuovo in nostra mano, guarda cosa che è, se puoi ricevere notizia, che tu sei più vicina di me. Da gli altri fratelli neanca nessuna notizia?»
Possiamo solo immaginare come dev’essersi sentito il giovane soldato. Finalmente avrebbe potuto riabbracciare i suoi cari rimasti in paese, ma il dovere e la fedeltà all’imperatore lo chiamavano altrove.
E’ interessante notare l’uso del termine patria, che si riferisce più al concetto di Heimat (un riferimento delle origini, dell’identità e degli affetti), che al concetto di patria che conosciamo.
«Non è l’unico caso in cui soldati di Cortina parlano di Patria intendendo solo l’Ampezzano», sostiene Giacomel, «Ampezzo è sempre stata una sorta di mondo a parte, quasi uno stato a se stante, sotto l’egida ora di questo, ora di quel governo».
Teofilo, quindi, con la morte nel cuore si appresta a partire per il fronte del Piave, come ricorda ancora lui stesso con una punta d’orgoglio: «Il Piave mormorava: non passa lo straniero; ma noi sì, che l’abbiamo passato».
E in effetti il suo reparto fu impegnato nei tentativi di sfondamento dell’ultima difesa del regio esercito. Il superamento del Piave da parte delle forze degli imperi centrali avrebbe aperto la strada fino a Milano, Torino, portando il nuovo fronte sul Po. Così non fu. Sul «fiume della riscossa» (come è stato chiamato), i sentimenti dei soldati contrapposti e con essi le sorti delle battaglie si capovolsero.
Gli italiani iniziarono a sentire la guerra come una difesa, non più un’aggressione, così tutti i soldati diedero del loro meglio per non cedere più nemmeno un palmo di terra. Per contro, lo slancio per la difesa della loro terra (che aveva spinto a mille sacrifici gli austriaci dopo il 1915) venne meno trovandosi in terra straniera e gli italiani (anche grazie all’indispensabile supporto d’uomini e mezzi fornito da Francia, Inghilterra e Stati Uniti, frattanto entrati in guerra con l’intesa) iniziarono a tener testa agli attacchi austro-tedeschi, scatenando poi la controffensiva vittoriosa.
Frattanto, l’esercito imperiale e regio era ormai allo sfacelo: uomini stanchi avrebbero voluto mollare tutto e tornare alle proprie famiglie, le varie identità etniche non tedesche non percepivano più quella come una guerra loro. Così iniziò la ritirata, incalzata dagli italiani.
E proprio questo è uno dei ricordi più dolorosi di Teofilo:
«Gillarduzzi era stato costretto ad abbandonare il proprio pezzo d’artiglieria, sostituendolo con una mitragliatrice: arma efficacissima per proteggere le spalle di un esercito in rotta», è ancora il racconto di Giacomel, «Così, un giorno, si trovò sulle colline del Fadalto a coprire la ritirata, più con le parole che con le pallottole. La scelta di mettere in difesa soldati di lingua italiana ma di provata fedeltà per l’impero aveva lo scopo di far desistere le inutili carneficine fra retroguardie dell’esercito in ritirata e cavalleria dell’esercito avanzante».
Infatti, con megafoni improvvisati, come avevano fatto gli schützen trentini e ladini di lingua italiana nei primi attacchi dopo la dichiarazione di guerra, anche Teofilo e chi era con lui tentarono di spingere gli italiani a lasciar ripiegare senza spargimenti di sangue gli austro ungarici. Invano.
Ma più delle parole in italiano pronunciate da un «nemico», poterono l’insensibilità e il menefreghismo di molti ufficiali e così anche contro la mitragliatrice di Teofilo fu lanciato un attacco.
«Teofilo ricorda l’evento drammaticamente», dice Giacomel, «Nonostante gli inviti, gli italiani tentarono attacchi, prima di cavalleria e inseguito con i reparti d’assalto. I soldati imperiali non ebbero altro da fare che rispondere al fuoco falcidiando lungo la salita sia cavalli che cavalieri e poi chiunque tentasse di salire.
La difesa fu efficace, ma improvvisamente finirono le munizioni e, nonostante i superstiti austriaci tentassero ogni metodo per salvarsi (persino il lancio di pietre e l’uso di fucili come clave), furono presto circondati e sopraffatti da un manipolo di arditi».
Per Teofilo, la situazione sembrava volgere al peggio. Quando fu immobilizzato, si lasciò sfuggire qualche frase in italiano e chi l’aveva fatto prigioniero, preso dall’ira e considerandolo un traditore, iniziò a malmenarlo. Gillarduzzi stava per essere linciato, quando la sua sommaria esecuzione fu fermata da un capitano degli alpini che ebbe pietà di quel nemico così simile: montanaro di lingua italiana e fedele a quella che, per un motivo o per l’altro, era la sua nazione.
Fu trattenuto fino all’arrivo dei regi carabinieri, che lo scortarono in prigionia. Fu sballottato da un campo all’altro, fino a quando fu liberato, nel 1919 e poté tornare nella sua valle, dove, con i familiari, ricominciò una vita pacifica come albergatore.
Stefano Walpoth
Teofilo, lo «straniero»
che passò il Piave.
A 105 anni racconta la sua storia
Cortina perde Teofilo l’uomo dei tre secoli.
Combatté la Grande Guerra
LINK - Il ritorno a casa dalla prima guerra mondiale nei ricordi del centenario Teofilo Gillarduzzi. Da Le pagine di Storia locale di Paolo Giacomel del sito
© Recuperanti 2009 - stampa la pagina - invia a un amico - |