Nate entrambe a Grigno (TN), rispettivamente nel 1920 e nel 1912.
Intervista effettuata in Valsugana orientale
nel corso di una ricognizione alla ricerca
del vecchio confine fra regno d’Italia
e impero austro-ungarico, il 17 agosto 1999
Novello: «Qui gli abitanti all’inizio della guerra sono stati mandati tutti a Torino. Io avevo tre anni quando mi hanno riportato in paese. Hanno subito evacuato tutto il paese, perché noi eravamo sul confine; al ritorno abbiamo trovato tutte le case giù.
Ci hanno costretto ad andar via, a Torino e in altre parti d’Italia. Qui sono venuti i soldati e quando io sono tornata a casa non c’era più né la casa né niente e ci siamo sistemati nelle baracche. C’erano tutte baracche, solo qualche casa era rimasta ancora utilizzabile. Noi siamo stati nelle baracche finché hanno ricostruito. Noi la guerra l’abbiamo fatta dal ’14 al ’18. Però i miei, quando sono tornati hanno trovato ancora la casa.
A Torino abitavamo nelle case operaie e i nostri lavoravano in fabbrica, ci davano lavoro ed erano bravi. Guardi, mia mamma, mi ricordo che mi raccontava, andava a lavorare in una fabbrica di marmellata e le avevano dato la casa lì, «dal ’14 fino al ’18»; come noi adesso con gli albanesi. Ma noi allora ci si comportava meglio, e poi si sentivano i nostri genitori che erano contenti, perché ci hanno dato il lavoro e ci hanno dato la casa. I nostri profughi sempre comportati bene, mica come quelli che vengono adesso».
Le due donne mi consigliano di andare da un certo Menio. Una mi chiede se a Treviso conosco un certo oculista Minati, che è tanto bravo. Scatto una foto...
È vero che chiamavate «italiani» quelli che venivano da oltre il confine, dalla bassa Valsugana?
«Sì. Perché qua era Austria, anche adesso noi li chiamiamo italiani. «Quei de Bassan pa nialtri i é taliani»; (anca a Primolan)».
E loro cosa vi chiamano?
«Loro non so cosa ci chiamino, ma noi li chiamiamo ancora italiani. Guardi, vede quella casetta in costruzione? Io ho chiesto a uno qui del paese, qualche giorno fa: «Chi è stato a comprare quella casetta?» «Italiani», mi ha risposto. Sono venuti su da Vicenza...»
«Sóto Primolan i é tuti italiani - conferma l’altra amica - Il confine comunque è prima di Primolano: c’è proprio un paesetto che noi si chiama «el confin», dopo Tezze, dopo Martincelli c’è il confine. Ora non si vede più niente di questo confine».
Come vi trattavano i tedeschi?
Dell’Agnolo: «Meglio degli italiani. I nostri (io ho conosciuto i miei nonni, sono nata nel ’20), i nostri avevano nostalgia dell’Austria: i piandéva quando che l’a perso l’Austria, i nostri qua, i piandéva tuti».
«Nur einmal noch in meinem Leben, auf der Innsbrücke möcht ich stehn...»
«Mi piacerebbe stare ad Innsbrück ancora una volta in vita mia...»
Costabella - Unterstand (Dolomiti)
(foto di A. Hand, dal libro Bergen in Flammen di Luis Trenkel, 1936)
Quando vostro padre è tornato da militare con l’Austria, come l’hanno trattato, gli italiani?
Ah, cosa vuole che ci facessero... noi dovevamo trattar male loro!
Comunque non è successo come a Primiero che sono stati portati in prigionia, qui hanno iniziato ad arrangiarsi, a mettersi a posto le case, mi raccontava mia mamma.
Però noi si stava meglio con l’Austria, perché i nostri andavano tutti a Innsbruck».
A fare cosa?
«A lavorare, perché qui non c’era niente, come giù per l’Italia.
Dopo la guerra qui c’era da patir la fame, perché non c’era niente, né lavoro né niente. Poi un po’ alla volta le cose si sono messe a posto, ma ce n’è voluto del tempo!
Prima andavano tutti in Austria a lavorare. Andavano a Innsbruck a fare i muratori, in fabbrica, in campagna... de tuto i fàva. Erano bravi gli italiani, i nostri qui. Avevano considerazione presso gli austriaci, tanto, tanto. E anche in Austria li trattavano bene.
Anche noi due, dal 1946 siamo state a lavorare all’estero: in Svizzera: metà paese l’èra tuto in Svisséra».
Novello Oliva, 1912, profuga a Torino, in città.
«...e i nostri andavano a lavorare in una fabbrica lì che si chiamava Viscosa dove in tanti dei nostri sono andati a lavorare...».
Che ricordo ha dei torinesi?
Novello: «Ci trattavano bene, tanto come in Svizzera. Si lavorava, si faceva il nostro dovere, si era buoni con tutti.
Ci hanno messo in queste case operaie, magari in due tre famiglie in un casa.
Al ritorno qui non c’era più niente, baracche e baracche. Eh, non dava niente el governo taliàn!
E i soldi austriaci che avevate, che fine hanno fatto?
«Quali soldi, poh... che non c’era niente, né italiani, né austriaci. Eravamo tutti poareti!
Quando è successo di dover andar via, qui avevano tutti degli animali, sa... vacche..., e li hanno lasciati tutti liberi giù per i prati, perché è arrivata la tradotta a prenderli e i nostri hanno dovuto lasciare qui gli animali. Tutto hanno lasciato qui».
Ma li avranno venduti?
«No, no, non gli hanno dato niente. Scappare in fretta!»
Dell’Agnolo: «Sono venuti a prenderli, e allora i nostri - almeno così mi raccontavano i miei - hanno lasciato liberi gli animali nei campi, che andassero dove volevano. Eravamo poveri e siamo diventati ancora più poveri.
Quando dovevano partire (al momento di partire) i nostri piangevano, e piangevano anche quando ce lo raccontavano. Perché... tutti su questo treno, su queste tradotte, anche con i bambini ammalati. E non sapevano mica dove li portavano. Sono venuti qui a prenderci dicendo: «bisogna partire tutti che adesso qui c’è la guerra».
E al ritorno non c’era niente: tutte case abbattute, per terra. E allora se c’era ancora qualche camera coperta, tutti dentro a quella.
Se vuole però trovare altre persone di novant’anni deve andare alla casa di ricovero che c’è più avanti, qui in paese...».
Ringraziamo Camillo Pavan che ha raccolto questa intervista e ci ha concesso la sua pubblicazione. Per la versione integrale e le altre interviste vi invitiamo a consultare il sito e il blog dello scrittore.
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